di Elena Cavacciocchi
Racconto alcune esperienze in particolare con una donna, ospite di una Casa d’accoglienza per donne con disturbi psichiatrici.
C. ha circa 50 anni. L’esordio del suo disturbo psichiatrico è avvenuto molto presto rispetto all’età solita delle prime manifestazioni della schizofrenia, che si verificano di solito intorno ai 20 anni. Lei ha dato segnali di forte disagio fin da ragazzina – la direttrice della Casa mi informa che accadde dopo la somministrazione di un vaccino.
Comunque. C. è molto collaborativa dal punto di vista motorio, specie per quanto riguarda il lavoro a terra : ama infatti rotolare e lo fa con una grazia inusuale, con grande competenza. Mentre in piedi dopo poco si affatica, lamenta un dolore a un piede ( ha un alluce valgo molto pronunciato in effetti) e perde l’equilibrio. Io apprezzo la scioltezza dei suoi movimenti e glielo comunico, e lei mi chiede e richiede “Son portata vero?” ed io confermo, la rassicuro, la gratifico. E così continuano i nostri incontri per un po’, con una piccola parte di resoconto sul suo stato d’animo e un’altra parte di espressione motoria, certo stereotipata – C. è sì sciolta, ma i movimenti che esegue sono sempre gli stessi. Raramente esplora una direzione diversa, e quando lo fa è questione di pochi attimi; poi torna sulle sue traiettorie solite. Ma si muove.
Finchè un giorno arriva e dice : “io da oggi non cammino”. C’è da considerare che C. soffre di un dolore cronico alle gambe, dovuto all’obesità e alla cellulite nelle cosce. Spesso, le persone con disturbi psichiatrici prendono molto peso, complici i farmaci e la quasi totale assenza di movimento nella loro vita. Ma cosa ha spinto C. a questa decisione, proprio oggi?
Da seduta, come annunciato, chiede a me e all’assistente di aiutarla in una sorta di Rituale: lei farà nascere Rosaspina, la sua bambina ( o il suo Sé-bambina?) e noi dovremo assisterla entrambe in questo compito. Così approntiamo col materiale a disposizione (palle da Pilates , teli vari) una sorta di Uovo e di Placenta, da cui aiutiamo Rosaspina (una palletta più piccola ) a nascere. Dopo di che C. chiede il nostro aiuto per tenerla in braccio, cullarla.
Rosaspina è l’altro nome della Bella Addormentata. E C. è “addormentata” alla vita. Oggi poi ha deciso di non camminare ( quindi, dal mio punto di vista, di “ripartire da quando non camminava”) e di “rinascere”, operando una sorta di maternage a tre per questa Nuova Lei.
Da quel giorno, C. non ha più voluto rotolare; i suoi movimenti sono avvenuti per lo più da seduta; ha richiesto di ascoltare canzoni precise, ossia quelle risalenti alla sua fanciullezza , al momento in cui ha cominciato a star male. E da lì è partita la sua particolare “ricerca dei motivi” : un elenco di nomi, indirizzi, istituti ed eventi che si sono susseguiti, nonché un elenco di farmaci che ha assunto e ai quali – o ai dosaggi sbagliati, o allo sbagliato momento dell’assunzione – lei attribuisce la causa del suo malessere. E’ come se lei tornasse indietro ogni volta a quel tempo, nella speranza di individuare i motivi dell’inizio della malattia, della comparsa dei sintomi. Perché lei sta male, ne è consapevole, e vorrebbe star bene. E mi racconta a più riprese la vita che potrebbe o avrebbe potuto vivere : avere una casa sua, con un gatto e un cane, alcuni oggetti e l’immancabile macchina del caffè – lei ama il caffè ed ogni volta, al suo arrivo, si reca al distributore e ne prende uno.
Un giorno che C. sta particolarmente male, urla il suo dolore, urla la sua stanchezza, e dice che vuole morire. Poi, con un altro sguardo, si rivolge a me e chiede : “se io ora mi sdraio come se fossi morta, e poi mi rialzo, questo mi potrebbe far star meglio, vero Elena?”. Sì; la accolgo e la rassicuro in questo perfetto atto di simbolizzazione, nonché di “scarica a terra” di tutta la sua angoscia. Così fa. E dolcemente si rialza, mi guarda, mi ringrazia.
Da quel giorno, C. continua ad urlare, periodicamente, che non ne può più di tutto, delle assistenti, delle altre ospiti, delle cure … ma dopo abbassa il tono della voce e si scusa con me, di certo spaventata dalla possibilità di perdermi come “oggetto buono”; ma di certo anche per riparare, consapevole degli effetti che le sue comunicazioni e modalità possono avere su un’altra persona.